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    UNO DI DUE. DUE DI NIENTE. GLI ESITI DELLA PRATICA
    DELL’ACCANTANDO NELLA RICERCA ARTISTICA DI LUIGI DELLATORRE

    1. A caccia di immagini nella ragnatela globale

    Dal 2007, l’attività quasi di "hacker" esercitata da Luigi Dellatorre nei confronti delle pagine pubblicitarie di riviste e periodici - messa in luce da F. Alfano Miglietti, nel 1995, nella presentazione del ciclo di opere Finale di partita - si è riversata sulle immagini all’interno della Rete. La Rete esprime la quintessenza della globalizzazione realizzata e la sua ragnatela mondiale è il teatro dell’odierna “società dello spettacolo”, i cui alienanti meccanismi furono smascherati dal principe dei situazionisti Guy Debord già nel 1967 in questi termini: “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini.” (tesi 4 [1]). Nella società dello spettacolo - e quindi nella Rete - trionfa in modo assoluto quello che già Karl Marx, nel Capitale, aveva definito “feticismo della merce”, di una merce divenuta potenza “sensibilmente sovrasensibile”. Non solo. Le immagini-vedettes, che circolano nella Rete sono puri feticci anche nell’accezione freudiana del termine. Infatti, da una parte, sono idoli (eidola), che celebrano la ripetizione continua del sacrificio originario del Fallo, del Padre e di Dio e, dall’altro, sempre disponibili, assorbono totalmente la libido dei navigatori, senza rifiutarli mai e promettendo loro piena soddisfazione. Luigi Dellatorre non oppone resistenza alcuna a questo tipo di libido eminentemente scopica e il carattere “sensibilmente sovrasensibile” delle immagini-qualsiasi - che egli attinge a piene mani dal World Wide Web privo di padri e senza alcun Dio - dopo l’infatuazione per il bianco e nero nelle fotografie urbane scattate dall’artista nella serie Senza titolo (Milano), é posto in evidenza dai colori puri, violenti, spesso shocking delle sue opere. E tuttavia, trattando queste immagini rubate sub specie artis, Luigi Dellatorre, nell’assumerne in pieno il carattere idolatrico e di feticcio, nel contempo, a suo modo, le riscatta dalla loro natura e dal loro destino, sospendendo i dispositivi imposti ovunque dalla “società dello spettacolo” e “mettendo tra parentesi” la stessa ratio, che informa il mondo detto globale. Un mondo, in cui - per citare ancora Debord (questa volta dai Commentari [2]) - l’immagine-spettacolo fagocita continuamente ogni presenza anche residuale di realtà altra, sino a far sì che il mondo si riduca al mero riflesso, su scala planetaria, dell’autoirradiazione ubiquitaria dello spettacolo stesso, in modo tale che ovunque sia ormai impossibile sfuggire ai suoi tentacoli.

    A proposito della globalizzazione, soprattutto nei primi tempi, circolavano e circolano ancora molte “favole” [3] spesso inventate apposta per occultare l’autentica entità del fenomeno. Il più diffuso tra questi metaracconti è quello che vede in essa il dispiegarsi compiuto di un mondo unitario e senza più confini, né barriere, destinato ad uno sviluppo inarrestabile e configurato da rapidi flussi, movimenti e reti, che attraversano le regioni e i continenti tutti abitati da una società civile perfettamente mondializzata, accomunata dal medesimo spirito neocosmopolita e organizzata politicamente da una governance globale. In questo mondo la comunicazione - l’unico e ultimo dio rimasto nella nostra civiltà post-moderna - fluisce universalmente senza limiti sradicando, liquefacendo e assimilando ogni fondamento, ogni tradizione, ogni ideologia e ogni forma chiusa di identità. Questi nuovi miti individuano, quindi, il proprium della globalizzazione nell’apertura di un unico orizzonte mondiale letteralmente sconfinato, senza più esterno - nel venir meno, quindi, della stessa opposizione binaria interno/esterno - assolutamente libero da  confini, barriere, polarità, dicotomie, contra-dizioni, nonché incommensurabile rispetto a tutte le spazializzazioni e le geometrie topologiche, che caratterizzarono il cammino della civiltà  occidentale sino alla modernità.

    In realtà, e soprattutto dopo l'”11 settembre” 2001, il mondo cosiddetto globale è sempre più attraversato da incertezze, paure e conflitti e appare di fatto profondamente solcato ovunque  da recinti, barriere e nette linee di demarcazione, i quali identificano e separano polarità opposte, la cui contrapposizione viene addirittura enunciata nei termini del contrasto originario tra Bene e Male o tra Positivo e Negativo, in conformità ad una ferrea logica binaria di tipo oppositivo, escludente ed immunitaristico. Il risultato è che alla paura dell’Altro e al crescente disagio si reagisce attraverso una sorta di ipertrofia identitaria, che si manifesta, a livello socio-politico-culturale, nel rafforzamento e nella proliferazione dei neocomunitarismi, nonché nel desiderio nostalgico di "piccole patrie" autonome, chiuse in se stesse  e del tutto ripiegate nella orgogliosa difesa del proprio "interno" rispetto ad ogni possibile intrusione proveniente da fuori.

    D’altro canto, un tale universo “spettacolare” della comunicazione senza limiti, non può non costringere chi ancora intende pensare a porsi le domande radicali: che cos’è immagine, che cos’è comunicazione e che cosa propriamente si comunica attraverso le immagini? Tutti interrogativi che Luigi Dellatorre pone prepotentemente al centro della propria ricerca artistica.

    Del resto, l’arte contemporanea in generale ci mostra - pur nel suo multiverso di gesti, azioni, manifestazioni e oggettualità, i quali mirano ad avere il più forte impatto comunicativo possibile - che l’arte non si riduce mai totalmente a mera “comunicazione del comunicabile” (W.Benjamin), cioè non si esaurisce nella mera partecipazione-pubblicizzazione-trasmissione di contenuti e di messaggi attraverso i suoi segni, come Luigi Dellatorre non solo mostra benissimo di sapere, ma anche concretamente mette in opera.

    2. Accantando. con agio.

    All’interno di una cornice artistica, dunque, non già post-moderna, bensì tipicamente contemporanea [4], Luigi Dellatorre opera una peculiare quanto straordinaria operazione, che emerge in modo emblematicamente perspicuo in particolare nelle opere del ciclo, che l’artista stesso ha denominato con il quanto mai appropriato neologismo “Accantando” Tale inesistente gerundio verbale innanzitutto vuole accordare assieme i due etimi ricollegabili alla parola “canto”. Da una parte - da ac-cantando - il verbo suggerisce la derivazione dal verbo latino canere, vale a dire “cantare”. Dall’altra, emerge la derivazione di “canto” dal greco kanthós, parola che letteralmente indica sia l’angolo dell’occhio, sia il cerchio esterno di una ruota. A questi significati riguardanti l’etimologia del termine “canto”, Luigi Dellatorre aggiunge sinergicamente quello decisivo di accantare come “stare accanto”, espressione verbale corrispondente al  latino ad-jacere,  la quale si ritrova nel nostro termine agio, che letteralmente sta ad indicare lo stare nello spazio accanto, là dove solamente può risuonare libero il canto, perché vi ha luogo l’accordarsi di rythmos e di schémata. Il termine “agio” tra l’altro, è profondamente legato all’arte intesa come poiesis, se è vero che, nei poeti provenzali, l’equivalente della parola “agio” ovvero aizi e aizimen, è termine tecnico fondamentale della loro poetica, per indicare, come puntualizza G. Agamben, l’amore stesso “quale esperienza dell’aver-luogo di una singolarità qualunque” [5].

    Ogni opera di Dellatorre intende espressamente conservare un’aura - che, per i teologi medievali, consisteva in una sorta di perfetto individuarsi dell’ente indeterminandosi - dato che non vuole essere tecnicamente riproducibile ad indefinitum, bensì è un originale unico. E ognuno di questi esemplari unici e irripetibili rende visibile una peculiare pratica dell’accantare in quanto esperienza del due-in-uno o dell’uno-di-due. Ma in modo tale che i due dell’uno sembrino colti sempre con le due code degli occhi, i quali, nella loro visione bilaterale, si smarcano da ogni prospettiva frontale e centralizzata. Perciò, lo sguardo foto-grafico di Luigi Dellatorre non è quello necessariamente astraente dell’occhio quale organo della visione logico-metafisica delle cose, capace di mettere a fuoco solo ciò che è “uno e determinato”, isolandolo,  separandolo e differenziandolo da tutto ciò che è altro da esso. Il lavoro sui  materiali fotografici è esercitato da Dellatorre secondo un guardare a partire dal quale i due stanno l’uno accanto all’altro come due-uno e un due, senza, quindi, che i due ostendano il loro reale differenziarsi e senza che ognuno dei due sia identificabile come ciò che è se stesso nella misura in cui esclude e respinge da sé l’altro, nel più classico degli aut … aut, che appartengono alla ordinaria visione logico-razionale delle cose. Luigi Dellatorre sperimenta così un’altra e inedita dimensione del vedere.

    Osservando le opere del ciclo Accantando emerge che tra i due-di-uno si possa anche intravedere - ma non sempre - una linea, o il segno di una commessura, ma non tale da far sì che essa divida e separi i due sino a  renderli appunto differenti e quindi ognuno altro rispetto al suo altro. Con ciò, Luigi Dellatorre viene a toccare il cuore di ogni esperienza simbolica. E il symbolon, per i greci, lessicalmente significava semplicemente l’indissolubile “tenersi assieme” di due e materialmente era una tessera di coccio spezzata, fratta, senza  però dar origine a due metà differenti. Solo quando i due - fratelli, amanti, coniugi, amici - erano costretti dalle circostanze a separarsi e ad allontanarsi l’uno dall’altro, la tessera veniva effettivamente divisa e ognuno dei due ne portava con sé una metà, nella promessa e nell’attesa di potersi un giorno ricongiungere sino a riaccostare - riaccantando? - le parti separate onde ricomporre un(due), ovvero (due)uno.

    Secondo Platone (nel Simposio), il simbolo è un “uno fatto di due” proprio come ciò che compete alla natura demoniaca di Eros. Ed è proprio la divinamente folle potenza di Eros ciò che fa sì che un qualsiasi prodotto del fare umano e di una certa tecnica sia opera d’arte. Certo, quella che una volta veniva chiamata bella arte richiede spiccate abilità fabrili, nonché il sapiente ed efficace esercizio compiuto di una tecnica e ogni téchne produttiva implica intelletto, studio, educazione, applicazione. Ma affinché la téchne produca arte c’è bisogno dell’intervento di una divina potenza, proveniente da un assolutamente Altro e che gli antichi associavano alla mediazione e all’“interpretazione” delle Muse, di Afrodite e di Eros. E proprio una autentica divina follia erotica è quella che “ispira” Luigi Dellatorre, nella sua incessante e famelica caccia alle immagini della Rete e lo spinge poi, con autentica voluttà, a trattarle, mal-trattarle, stravolgerle, accarezzarle e sottoporle, come un novello Apollo, a precisi interventi plastico-chirurgici, onde sottrarle al loro destino di nullificazione e restituirle a ciò che ab origine nella Rete esse non sono e non potrebbero mai essere: “carne del mondo” (nell’accezione data dal filosofo Merleau-Ponty).

    Eros non ubbidisce affatto ai principi logici dell’identità e della differenza. L’occhio demoniaco di Eros non isola né separa un individuo dall’altro, bensì mira a ricongiungere i due senza negare affatto il loro distinguersi, ma proprio a partire da esso e nel pieno rispetto della loro invisibile e incalcolabile distanza, secondo quell’esperienza simbolica o simballica dello stare-accanto, da cui dipende ogni forma di agio e che sola rende possibile lo scaturire del fare del canto. E quindi è condizione dell’apparire dell’arte tout court, nella sua essenziale natura.

    Il materiale fotografico di cui si serve Dellatorre è costituito da meri, differenti e seriali prodotti o sottoprodotti della riproducibilità tecnica propria dei media dell’attuale “società dello spettacolo”, nella quale vengono ad alienarsi e reificarsi - proprio nell’immagine fattasi autoreferenziale e tautologica sino a ripetere sempre e solo il vuoto slogan “ciò che appare è buono e ciò che è buono appare” (come sottolinea Debord) - le stesse capacità linguistiche, desideranti e immaginanti dell’uomo. Ecco che allora l’apollineo gesto dell’artista cacciatore dionisiaco cerca ogni volta di sospendere artistica-mente - non già di negare, perché quest’ultimo è un gesto tipicamente logico - tale estrema forma di alienazione, la quale, a prescindere dall’intervento artistico, non potrebbe che tradursi in iper-rappresentazione, ovvero nella più cieca e distruttiva violenza della comunicazione senza limiti.

    Dellatorre, dunque, investendo tutta la sua libido scopica in questi mercificati idoli e feticci e amando smisuratamente e perversamente tali immagini sino a possederle e violentarle, aspira, però, a lasciar scaturire da esse un’altra violenza o la violenza dell’assolutamente Altro - quella “spirituale” e divina di cui parlarono, agli inizi del ‘900, in termini consonanti, un filosofo come Benjamin e un artista come  Kandinskij - la cui natura produttrice e insieme distruttrice opera, tuttavia, sempre a favore della vita e nel pieno rispetto della “carne del mondo”. Una violenza pura e sovrana, la quale da sé ed eventualmente si comunica e che Dellatorre avverte essere presente, come pura possibilità, nell’abisso del senza-fondo, che ogni immagine, anche la più bassa e degradata, custodisce in sé.

    3. Una radicale esperienza artistica del tempo

    Si diceva che tra i significati del neologismo accantare vi è quello riconducibile al verbo latino canere, “cantare” e il vero canto, il puro canto può risuonare - sia in voci, che in colori, sia nella voce che è gesto, sia nel colore che vibra, così come violentemente vibrano i colori delle più recenti immagini di Dellatorre - solo laddove vi siano rythmos e schémata. La parola schéma - fondamentale nelle arti, nella misura in cui il loro ergon si rende visibile nel coappartenersi di “suono (phoné) e figura (schéma) e colore (chroma)” (per riprendere la celebre espressione platonica) - di solito viene tradotto con “figura”. Ma lo schéma è, in arte, “figura” in un senso assai più profondo e pregnante della falsa e vuota alternativa tra “figurativo” e “non figurativo” spesso utilizzata dalla critica e dalla storiografia delle arti per indicare la discontinuità dell’arte contemporanea astratta o informale rispetto a quella moderna. In realtà, neanche l’arte più “astratta” del ‘900 ha mai rinunciato alla “figura” intesa come schéma, né avrebbe potuto farlo. Tutte le arti visive, in realtà, si dovrebbero definire, in tal senso, figurative, perché originariamente la parola greca schéma (σχήμα) non indica affatto la forma o l’aspetto nella loro staticità o fissità, né il risultato compiuto di un fare. Essa indica invece il gesto e le movenze di una danza, nonché, come in Platone, le “figure (schémata) del canto”, il che ci riporta nuovamente al vibrare del “puro suono” della voce e al suo ritmo.

    Ma nello scandirsi di un ritmo, dove sta propriamente lo schéma? La “figura” sta tutta nel gesto di un protendersi o nello slancio, così come il “passo di danza” e il “passaggio” musicale non sono un semplice “spostamento locale” da …a, oggettivamente misurabile o calcolabile. Non presuppongono un qui ed un , un ex quo e un ad quem, come già dati. L’origine e la destinazione vengono, invece, a determinarsi, in maniera del tutto in-stabile e reversibile, a partire dall’evento del movimento stesso del balzo, della piroetta e del “passaggio”. Di conseguenza il ritmo, ogni ritmo, è un proiettarsi sempre in bilico - perennemente in volo - tra un “primo”, che non c’è, in quanto è sempre già passato e un “secondo”, che non c’è ancora e non ci sarà mai, perché non è altro che il proiettarsi verso un “terzo”, che è l’analogon del “primo” (che non c’è), ossia è “immagine” del primo e così via…

    Tutto questo ha a che fare con il tempo. E i lavori di Dellatorre, nel loro accantare, mostrano una profondissima e peculiare esperienza artistica del tempo.

    Innanzitutto, gli esiti di tale pratica dell’accantando sospendono la progressiva ed unidirezionale linearità del tempo crono-logico, in una sorta di eterno presente, in cui non si danno più successione, né processualità, né discorsività. L’orizzonte temporale dischiuso dalle opere di Dellatorre non è, infatti, quello discorsivo, ma anzi si pone contemporaneamente al di qua e al di là di ogni crono-logia e di ogni successione, nella radicale sospensione del dominio del tempo della parola, ovvero del tempo del logos che è capace di dispiegare processualmente solo una cosa dopo l’altra e l’una fuori dall’altra. L’indugiare con agio nella visione bilaterale dello stare accanto di due-in-uno e / o uno-di-due, che Luigi Dellatorre mette in opera evocando tale eterno presente, non comporta affatto, però, il venir meno di un rapporto con il passato e nemmeno di quella protensione verso il futuro, che ogni opera d’arte custodisce in sé in quanto “icona del mondo venturo” (P.Florenskij). Del resto lo stesso Paul Klee sosteneva che l’arte, in quanto tale, è sempre volta all’avvenire [6].

    Gli esemplari unici dotati di aura, che Dellatorre ricava, sono il frutto di un inesauribile cercare (all’interno dei materiali fotografici a bassa risoluzione presenti nella Rete) e ogni ricerca, in quanto tale, si rivolge sempre verso ciò che sta prima, che quindi è passato, perché la domanda riguarda sempre l’essenza della cosa - ciò che Aristotele aveva definito “to ti en einai”, letteralmente “ciò che era essere” - la causa, la provenienza, in ogni caso ciò che si ritiene stia prima. Ma il passato è sempre e necessariamente perfectum, è definitivamente un non più. E quindi, in quanto tale, è e resta inattingibile. Le stesse foto reperibili on line, che Dellatorre instancabilmente recupera, apollineamente riporta alla vita (nel significato letterale del termine) e restituisce in qualche modo alla carne del mondo, sono solo resti, dai quali è impossibile ricostruire alcun fatto, alcuna presenza reale, alcuna concatenazione di eventi. Sono resti destinati a cadere inevitabilmente nell’oblio. Eppure Dellatorre non riesce a distogliere il suo sguardo da essi, sia pure necessariamente da lontano, in modo che il suo trattare (anche chirurgicamente come si è detto) tali resti risponda alla più autentica delle meraviglie: quella che caratterizza ogni habitus essenzialmente e radicalmente domandante.

    In tutto questo, come ci fa vedere Dellatorre, più cerchiamo, spinti dall’eros della domanda e quindi più cerchiamo di ri-volgerci al passato, più il passato (perfectum) ci si rivela perduto, inattingibile e immemorabile. Solo che questa nostra insopprimibile ricerca letteralmente ci infutura, nel senso che si esplica nell’apertura di un’attesa, dell’attesa di ri-trovare e ri-conoscere quel passato da cui il nostro cercare inevitabilmente ci allontana per sempre, disponendoci nell’aspettativa di qualcosa che è sempre da venire (ovvero la risposta alla nostra originaria domanda). Così, nel poi, attendiamo la venuta di quel prima che andiamo ricercando e che non potremo né potremmo mai cogliere né possedere in quanto tale.

    Ecco che allora le immagini uniche, irripetibili ed “aureolate” frutto dell’accantando di Luigi Dellatorre ci mostrano che il movimento perpetuo del nostro cercare, all’indietro, un passato ormai irrimediabilmente perduto, in realtà, ci sospinge sempre in avanti verso l’interrogante attesa di un futuro. Tutto questo è reso possibile e può accadere solo nel permanere di un eterno presente, che, a sua volta, non passa e che può non passare solo nella sospensione del tempo della parola, del tempo della successione, del tempo crono-logico.

    Un eterno presente che non passa, ma che, insieme, non è affatto altro dal perenne divenire di tutto, in cui Luigi Dellatorre ama immergersi. Un impossibile eterno presente di cui l’artista, alla fine, nella sua peculiare pratica dell’accantando, lascia apparire, di volta in volta, una duplice icona, una sorta di diade, che è come una piccola, ma sacra porta, attraverso la quale, per riprendere quanto scriveva W. Benjamin, potrebbe sempre entrare un Messia, il quale più che redimerci, sconfiggerà l’Anticristo, ovvero il testimone dell’impuramente violenta ratio oppositiva, escludente ed immunitaristica, su cui si fonda il pensiero unico che, apparentemente incontrastato, domina nel nostro mondo globalizzato. In modo che i mortali - coloro i quali, alle origini della civiltà europea, Parmenide aveva definito díkranoi “uomini dalla doppia testa” (fr.6, v.5) - siano fedeli a quanto, secondo il poeta Bacchilide, il dio Apollo disse un giorno ad Admeto: “Tu sei un semplice mortale e perciò la tua mente deve ospitare due pensieri alla volta”.

    Due pensieri alla volta, due immagini alla volta, non l’una dopo l’altra, bensì l’una accanto all’altra come uno di due o due-uno. Accantando. Nell’unica esperienza di agio, che l’arte può offrirci nell’era dell’iper-rappresentazione globale e dell’effimero trionfo delle immagini-vedettes.

    Milano, maggio 2008, Romano Gasparotti

    [1] G. Debord, La société du spectacle, Buchet-Chastel, Paris 1967.
    [2] G. Debord, Commentaires sur la société du spectacle, Champ Libre, Paris 1988.
    [3] Mi sono estesamente occupato di ciò nel volume R. Gasparotti, I miti della globalizzazione. Guerra preventiva e logica delle immunità, Dedalo, Bari 2003.
    [4] Su tale distinzione, rinvio a R. Gasparotti, Figurazioni del possibile. Sul contemporaneo tra arte e filosofia, Cronopio, Napoli 2007.
    [5] G. Agamben, La comunità che viene, Einaudi, Torino 1990, p. 19.
    [6] Il filosofo del ‘900 Andrea Emo scrisse a questo proposito: “un’opera d’arte (…) è ciò che riesce a restare perpetuamente futuro – come rimane perpetuamente futuro anche il passato (…) – il tempo quando si libera della sua obiettività” (Quaderni di metafisica 1927-1981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Bompiani, Milano 2006, p. 785).