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  • LUIGI DELLATORRE: FINALE DI PARTITA
    “Ci sono due forme d’oblio: lo sterminio lento e magari violento della memoria, il passaggio dello spazio storico nello spazio pubblicitario, o la promozione spettacolare. (...) E’ così che ci siamo fabbricati, con l’ausilio di una gran massa di immagini pubblicitarie, una memoria di sintesi che ci fa da riferimento primitivo, da mito fondatore...”
    J. Baudrillard

    Una dimensione alterata e artificiale, questo lo scenario in cui si muove la vita quotidiana. Una dimensione in cui tutto viene propagato attraverso la luce elettrica, nei tagli di luce alogena, nei riverberi dei neons, nel tremore dei displayes, nei pixels schizzati dei monitors. Una dimensione in cui il rumore di voci provenienti dall’aldilà, un aldilà costituito da voci seducenti che pubblicizzano stili di vita, voci che danno le ultime notizie, voci di corpi mediatici e flussi di ininterrotte occupazioni di spazio: mentale, fisico, sonoro, visivo, virtuale. Una dimensione completamente priva di senso ma promossa e attivata come unica produzione di tempo, di spazio, di riconoscibilità. Luigi Dellatorre si inserisce nel flusso mediatico di immagini pubblicitarie operando un prelievo massiccio e restituendo la dignità di non senso a tutta l’operazione propagandistica, agisce come un corpo alieno e vivo, il disturbo che attiva una sfera cognitiva alterata e modificata.

    La serie di lavori raggruppati sotto il titolo beckettiano Finale di partita di Luigi Dellatorre, é costituito da milleuno pezzi, milleuno immagini pubblicitarie estrapolate e sottratte ad alcune delle più note testate giornalistiche a cui si aggiungono, registrati dalle TV italiane, circa cinque ore di messaggi pubblicitari in versione audio e circa ottanta minuti in versione video. Alle pagine di pubblicità Luigi Dellatorre ha aggiunto, scritte a mano, dei frammenti di frasi scelte a caso da libri di varia natura, un ulteriore inserimento verbale che non annulla né cancella la struttura immagine/slogan che la pagina già conteneva, ma che si innesta come una metastasi di non senso ad una struttura che ci si presenta come produzione di seduzione e di desiderio.

    Che tipo di produzione é la produzione di messaggi pubblicitari, messaggi televisivi, messaggi informativi, messaggi mediali? E’ la produzione di livelli di realtà che tende ad alterare i meccanismi di rapporto tra il nostro ambiente immediatamente circostante e le rappresentazioni che ne ricaviamo, il meccanismo di conoscenza e di esperienza diretta e il repertorio delle nostre immagini mentali.

    Da quanto tempo questo meccanismo é saltato e da quanto tempo il repertorio di immagini che la nostra mente produce é lo stesso di quello prodotto originariamente dai media? Da quanto tempo siamo ormai in grado, automaticamente, di metterci al posto di un’altra persona? “...una capacità che ci permette, grazie al linguaggio (gestuale, vocale, grafico, ecc.) di metterci al posto di quest’altra persona, di vedere con i suoi occhi, di avvalerci del suo sistema ottico per essere avvertiti di un evento, per ri-presentarci esseri, oggetti che vediamo o non vediamo ancora, nonché di agire per conseguenza”, scrive Paul Virilio.

    Luigi Dellatorre agisce una dimensione di artista/hacker, si inserisce nel sistema chiuso dell’informazione pubblicitaria e vi lascia cadere un virus di alterazione, alla struttura rigida immagine/slogan, seduzione/convinzione, adescamento/convincimento, aggiunge frasi, prese a prestito da fonti provenienti da altri sistemi di comunicazione, e crea disordine: un disordine di comunicazione che diviene il disturbo che modifica e altera la struttura prima.

    Luigi Dellatorre ha recitato tempo fa in Finale di partita di Beckett[1], nel ruolo di Hamm, il personaggio principale, e da qui, dallo sconcerto dei dialoghi beckettiani, il titolo di questa sua ultima serie di lavori che analizzano l’allontanamento del mondo mediale dal mondo reale. Un mondo mediale che ha patinato la guerra, che ha trasformato le città in sale da gioco con livelli di irrealtà sovrapposti come un enorme cavallo di Troia elettronico, che ha trasformato i bambini in cloni dei loro eroi televisivi, che ha trasformato gli adulti in una massa annoiata e indulgente.

    Luigi Dellatorre ha così realizzato una serie di lavori in cui abilmente costruisce un universo paradossale dove la persuasione e il non-senso si fondono insieme, dove la patinatura seduttiva del consumo si piega alla fragilità di frammenti di pensieri che si installano, scritti a mano come un appunto da non scordare su un notes personale, dolcemente sulle immagini pubblicitarie, rivelandosi successivamente tossiche e corrosive, tossiche perché alterano la struttura prima del messaggio e corrosive perché neutralizzano il messaggio stesso rendendolo inutile. Laddove c’é persuasione e adescamento Dellatorre insinua la pausa di sgomento che annulla l’effetto rapido di persuasione, dimostrando che la vera capacità, la vera efficacia del messaggio pubblicitario é la velocità. Dellatorre opera una alterazione proprio sul flusso veloce del messaggio, e producendo una pausa che costringe a rileggere, annulla il risultato finale dell’operazione pubblicitaria, il suo ritornello ossessivo, cantilenante anestetico. La sua scrittura a mano, imperfetta, liquida, sovrapposta, crea comunicazione, come le frasi che leggiamo sui manifesti, nei bagni pubblici, sulle banconote, come i numeri di telefono appuntati sui biglietti del metrò, sul giornale, sul palmo della mano, una serie di messaggi privati, personali, individuali, tutta una sfera della comunicazione che crea nuovi imprevedibili sistemi di senso e di tempo.

    Le opere di Luigi Dellatorre a prima vista sembrano prive di qualsiasi banale significanza controculturale, ma i suoi messaggi, queste brevi frasi estrapolate da altri contesti culturali e inserite nel messaggio pubblicitario, penetrano la struttura mediale e attraversano gli schemi della distrazione. Dellatorre affronta la crisi del contemporaneo in maniera indiretta, presentata nell’utilizzo dei suoi stessi mezzi, in una metaforica alterazione di un mondo popolato da esseri artificiali, ambiguamente piacevoli e spesso oltraggiosi.

    Dellatorre attinge ad una riserva incredibile di immagini di promesse e di speranze, di promesse di felicità e di speranza di mutazioni immediate, e vi installa il germe di un dubbio poetico e scomodo, instabile e alterato, innesta un linguaggio in un altro linguaggio, radicalmente differenti, sottraendosi in tal modo a quella tendenza nichilista comprovata che ha generato le immagini che lui seleziona, innestandovi l’emergere di un territorio mentale performante e mutante. E’ lo spazio della sottrazione, lo spazio in cui si manifestano le individualità, lo spazio che collassa a contatto con i modelli culturali a taglia unica.

    Appunti, frasi, intervalli, pensieri, frammenti di circuito mentale che si sottrae alla velocità, alla superficie liscia, patinata, seduttiva e anestetizzante. Lo sguardo di Dellatorre evidenzia una torsione (un rivolgimento), non vuole essere uno sguardo umile, dimesso, accondiscendente, non assume la seduzione delle immagini pubblicitarie, non vi soccombe, ma le ribalta, le fa sue, facendole interagire con una forma di comunicazione assolutamente imprevedibile.

    “La cecità é parte integrante del dispositivo delle prossime macchine di visione, in quanto la stessa produzione di una visione senza sguardo é solo la riproduzione di un intenso accecamento, accecamento che diverrebbe un’ultima forma di industrializzazione: l’industrializzazione del non-sguardo” scrive Virilio, la costruzione di una visione sintetica che pretenderebbe di liberarci dall’atto del vedere, ed é proprio la restituzione dell’atto del vedere quella che opera Dellatorre con i suoi inserimenti poetici, la restituzione di una porzione di comunicazione personale e diretta, l’uso del dispositivo di appropriazione di immagini e frasi sottratte e modificate, e perciò ripensate e disinnescate del loro uso primario, é il gesto di un’espressione del flusso di eventi che ha luogo sulla retina di chi si lascia abbagliare dagli incontri casuali, come quella fusione di immagini apparentemente inconciliabili che é materia della poesia.

    Milano, 21-12-1995, Francesca Alfano Miglietti

    Testo in catalogo personale Finale di partita, edizioni 1996 e 1998.

    [1] La rappresentazione teatrale di Finale di partita di Samuel Beckett, per la regia di E. Crivelli, si é tenuta nei teatri Gi-Fra (aprile) e Cagnoni (giugno) del 1976 a Vigevano (PV). Recensioni di R. Rivolta pubblicate da L’Informatore Vigevanese il 15 aprile pag.9 e il 3 giugno pag.11.