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  • IL DONO DELL'OPERA E L'OPERA COME DONO SECONDO LUIGI DELLATORRE

    1. Oltre il paradigma dell'autonomia dell'arte

    Ciò che, ormai per tradizione e per inerzia, chiamiamo arte è un’attività speciale, autonoma e indipendente? Lo è diventata. E, per di più, in tempi relativamente recenti, in virtù di una certa metafisica idealizzazione, costruita e imposta dal canone del pensiero e della cultura dominanti e universalizzatasi sino a diventare senso comune globale.

    Prima che la teologia scolastica medievale equiparasse l’arte ad una scientia avente la sua peculiarità e prima che, a metà Settecento, essa fosse assunta quale oggetto specifico della disciplina gnoseologica chiamata Estetica, la creatività, da un certo momento epocale in poi detta artistica, attraversava, innervava e vivificava la totalità delle forme del fare. Insomma, l’arte era dappertutto, come si propose di mostrare e riattualizzare, in chiave contemporanea, la memorabile edizione 1999 de La Biennale Arti Visive di Venezia curata da Harald Szeemann. A prescindere dall’identità sia dei soggetti, che delle forme e al di là di qualsiasi oggettivazione dell’opera.

    Con l’intento di mantenere ben aperta e approfondire questa prospettiva, l’esperienza/happening Ti dono un’opera inaugurata da Luigi Dellatorre il 6 aprile 2019, all’uscita degli stands della Fiera Internazionale MIART di Milano e tuttora in corso senza soluzione di continuità, è una performance in progress, come ci tiene a sottolineare il suo testimone (non usiamo deliberatamente la parola autore, troppo compromessa e in questo caso fuori luogo).

    Al di là dei fraintendimenti – del tutto comprensibili alla luce del pensiero e del sentire unico imperante – che il progetto dellatorriano ha incontrato, il gesto teatrale del donare non è meramente strumentale né è separato rispetto alla feticistica centralità dell’opera d’arte in dono, la quale, a sua volta, non si identifica affatto, riduttivamente ed esclusivamente, con l’oggetto donato.

    Gli stessi beneficiari del dono sono, performativamente, estemporanei e interattivi coattori all’opera dello spettacolo di tale ricucente e vivificante happening etico-ricreativo.

    Ciò che accade ogni volta è la complessità di un unico atto artistico-creativo multivalente, che si mette all’opera festivamente e irripetibilmente nella sua intrinseca teatrale performatività, la quale non prevede soggetti separati quali autori e spettatori e nemmeno si fissa su oggetti autonomi ed indipendenti.

    È proprio attraverso la rivendicazione del fatto che l’arte è, sempre e comunque, prassi performativa in corso d’opera, che l’azione Ti dono un’opera intende sospendere e oltrepassare quel paradigma dell’autonomia – al centro dell’odierno dibattito filosofico-estetico – che, dal tardo medioevo sino ad oggi, continua a considerare l’arte un fare sui generis, separato rispetto alle altre forme del fare e tale da rendere visibili oggetti, il cui concetto e significato sono altro rispetto a quelli concernenti il resto delle ordinarie attività umane.

    2. Accantando gli imperativi del sistema dell'arte

    Il primo a cercare di sovvertire radicalmente il paradigma dell’autonomia fu, all’inizio del secolo scorso, Marcel Duchamp, sin dall’epoca del suo passaggio al ready made. Il Maestro francese propose addirittura di abolire il termine “arte”, perché troppo definitorio, pregiudicante e specialistico sul piano metafisicamente astratto, da sostituirsi, semmai, con qualsiasi altra parola dall’elevato grado di aleatorietà ed indefinitezza.

    Intrapresa con decisione, ormai da più di quarantacinque anni, questa rischiosa strada, Luigi Dellatorre intende mostrare come, ben oltre quanto viene quotidianamente celebrato e glorificato dal cosiddetto “sistema dell’arte”, la funzione e lo scopo principali di quest’ultima non sono affatto la produzione e lo scambio di oggetti all’interno di un mercato, che, pur avendo la sua peculiarità, resta, a tutti gli effetti, manifestazione del Mercato globale delle merci.

    Secondo le leggi del mercato, ogni produzione artistica e la forma di comunicazione, che essa comporta, risultano assoggettate ad un’inflessibile catena lineare, in virtù della quale l’oggetto – il cui emittente/promotore è la figura di un artista ridotto a funzionario (nell’accezione più letterale) del mercato stesso – attraverso mediazioni più o meno articolate, viene scambiato con un pubblico di consumatori/fruitori e, insieme e nello stesso tempo, di acquirenti. Tanto nella fruizione quanto nella compravendita – i cui soggetti, peraltro, sono del tutto intercambiabili – il denaro assolve un ruolo decisivo, mentre tutte le figure appartenenti al “sistema” risultano rigorosamente e indifferentemente funzionali alle implacabili macchinazioni di tale alienante logica di scambio.

    Ebbene, l’azione dislogica del donare arte come opera d’arte innanzitutto fa inceppare questi meccanismi.

    3. Per un'arte etica

    All’epoca dei primi albori del capitalismo industriale, un maestro del pensiero filosofico moderno come Immanuel Kant aveva cercato di sottrarre il bello e l’opera d’arte ad un destino, le cui sorti sembravano irrimediabilmente segnate sin dal Rinascimento, argomentando, nella Critica del giudizio, che l’arte non è affatto «attività mercenaria» capace di riscattare gli aspetti spiacevoli e, talvolta, penosi del lavoro che comporta, con la ricompensa che l’oggetto prodotto consente di guadagnare. La bella arte, semmai, è «puro gioco» e «attività piacevole per sé stessa». Perciò la prassi artistica non si identifica in alcun modo con le varie forme ordinarie di lavoro utile, non rientra affatto nei calcoli dell’homo oeconomicus e non perpetua la logica causalistica mezzo/scopo.

    Dal punto di vista disincantato dell’approccio né tradizionalista, né modernista né postmodern di Luigi Dellatorre, allora, il «puro gioco», in cui consiste la prassi artistica non esercitata in modo mercenario, non può che condurre alla dépense (nel senso batailliano) del puro dono, la quale sospende l’apparentemente imprescindibile centralità del denaro, hackera ogni logica dello scambio e contribuisce a sgretolare i fondamenti dell’imperium di ogni possibile sistema dell’arte.

    Nondimeno, la sua pratica – ripetuta e, nel medesimo tempo, sempre nuova – si smarca dalla stessa neoumanistica idealizzazione kantiana delle belle arti.

    Come Dellatorre ci tiene a dichiarare espressamente nell’originaria presentazione del suo Progetto, nonostante il divertimento venga spesso e volentieri associato al lavoro artistico, quest’ultimo non è affatto in sé, come scriveva Kant, «attività piacevole per sé stessa». Anzi, la sua concreta esperienza è quella di un’attività irrinunciabile sì, ma tormentata e faticosa, dettata dalla finalità senza scopi di un inquieto ricercare, che continuamente oscilla tra il fervore dell’urgenza espressiva e la necessità inderogabile di uno spiccato senso etico di responsabilità.

    In questo caso, tale senso di responsabilità è sempre stato assunto e interpretato da Dellatorre, sin dalla seconda metà degli anni ’70, nella prospettiva integralmente e immersivamente relazionale dell’artista quale corresponsabile di quella che Joseph Beuys amava definire «scultura sociale» del mondo. Con quali conseguenze?

    Come i non-oggetti dell’arte non sono affatto merci scambiabili in virtù dell’equivalente universale del denaro, così l’artista non ne è né il soggetto produttore capace di infondervi lo speciale significato artistico – come sostenuto dall’indirizzo principale dell’arte concettuale e dall’estetica postmoderna alla Arthur C. Danto – né il deus comunicatore, che ne codifica il messaggio trasmissibile. Perché l’opera, un po’ come testimoniava Willem De Kooning, non è che la vibrante ripercussione di quel conversare infinito, che tesse e garantisce la coesione vitale dei mondi e delle collettività politico-sociali. In questo gioco, il cosiddetto artista non è che la soglia in perenne trasformazione di certe emergenze di questo infinito corale intrattenersi. Come tale egli si nutre di quanto la collettività sociale, al di là del bene e del male, contribuisce a far circolare, nel senso dinamico – metodicamente denegato dal pensiero unico ed addomesticato e sfruttato dallo stesso sistema dell’arte – della più aperta, necessaria e inclusiva inter-relazionalità. Di conseguenza, l’artista, cioè potenzialmente «ognuno», come sosteneva ancora Beuys, ben al di là del gesto riduttivo di qualsiasi forma di generosità personalistica, non può che rendere alla collettività sociale quanto da essa ha ricevuto e continua a ricevere. E non può che farlo nell’unica modalità eticamente sostenibile: quella del dono gratuito. Assecondando e mettendo a disposizione di tutti i frutti di quel potenziale creativo e trasformativo, che consente alle società di non sclerotizzarsi e di salvaguardare la loro vitalità.

    4. Cucire il mondo

    Come Luigi Dellatorre sta testimoniando con la sua pratica etica dell’arte, il compito di quest’ultima è quello di Cucire il mondo, come recita il titolo di un progetto del 2016. Come i fiori, attirando e concentrando tutte le attenzioni sul loro sé effimero, potenziano e rinnovano la sinergia delle forze vitali e promuovono la biodiversità, così il miracolo, che l’arte all’opera continuamente rinnova, consiste nel rendere il multiverso dell’interagire di forze, che caoticamente si incontrano e si scontrano, un mondo. Un mondo mai dato, però, e nel quale nulla risulta mai scontato.

    Se la razionalità dominante si ostina, conoscitivamente e operativamente, a classificare, discernere, separare e discriminare nel nome di una verità superstiziosamente fondata sull’identità, sull’essenza e sulla sostanza, l’azione dell’arte, instancabilmente e pazientemente, cuce e ricuce, articolando e moltiplicando le pieghe. Non già operando, quindi, allo scopo della fusione ad unum, bensì nel senso – bastardamente impossibile a definirsi – del lasciar respirare la mescolanza-mixis dei divergenti.

    Come sollecitano a pensare le ultime tendenze dell’antropologia post-strutturale, ogni forma di vita, nella sua singolarità, esiste e agisce relazionalmente e interattivamente l’una accanto all’altra, senza gerarchie, in modi non discriminabili e al di fuori di ogni appropriabilità. Lo sosteneva e celebrava programmaticamente già il progetto dellatorriano Accantando, inaugurato nel 2008, dalle implicazioni anche filosofiche, benché non nella prospettiva astrattamente analitica della filosofologia.

    Il fatto che le forme di vita siano irriducibilmente singolari/plurali non esclude affatto la necessità di pensare il multiverso dei mondi in modo sgeograficamente – per riprendere il titolo di una mostra del 2014 – globale, o, ancor meglio, glocale. Pur esigendo la deposizione di ogni sguardo tanto frontale, quanto analitico, quanto pan-oramico.

    L’enigmatico neologismo Accantando, etimologicamente derivato dal verbo latino adjacere, cioè ‘stare accanto’, richiama contestualmente oltre che il cantus-canto, anche il greco kanthos indicante l’angolo dell’occhio, di un occhio mobile e inquieto mai esterno, che, sempre di sbieco, tra-guarda il limite al limite, delimitando senza definire e senza giudicare.

    5. Performatività creativa del donare

    Dunque, la performance in progress “Ti dono un’opera” di Luigi Dellatorre è, va ribadito, essa stessa l’opera, un’opera che, dinamicamente, come le monadi leibniziane, contiene in sé altre possibili opere mai separabili nella loro autonoma indipendenza, essendo, a sua volta, contenuta nella mai scontata Opera-mondo in perenne metamorfosi.

    Dono deriva dal latino DARE – spontaneamente, disinteressatamente, senza prezzo né ricompensa e senza l’obbligo di alcuna equivalente restituzione. Gli studi etimologici attestano che la medesima radice di DARE si ritrova nei verbi: rendere, circondare, mandare e tradire.

    In effetti, la creatività detta artistica si dà e circola – senza essere privilegio di nessuno – attraversando, permeando ed avvolgendo la totalità delle azioni, in cui sono coinvolte le varie forme di vita. Tale vivificante circolazione include anche il movimento necessario della reciprocità di un rendere, che non è un restituire nella modalità dello scambio lineare. Ma porta inevitabilmente con sé, sempre, anche un tradimento, cioè un tramandare e un trasferire, all’insegna della necessità del tradurre. Cucire il mondo comporta impegnarsi in un perenne esercizio di traduzione.

    Se, nel teatro/mondo – va ricordato che gli esordi artistici di Dellatorre avvennero in qualità di pittore e attore beckettiano – dell’interrelazione di tutto in tutto con tutto, l’intima natura delle forze all’opera non risulta mai totalmente conoscibile, disvelabile e quindi appropriabile, allora tradurre-tradendo (in tutte le accezioni del termine) è il modo più adeguato possibile per rispettare l’inviolabilità di tale fundus intraducibile.

    Come ha scritto l’antropologo contemporaneo Eduardo Viveiros de Castro, tradurre comporta abitare salutarmente le imprevedibili possibilità dell’equivoco. Non per eliminarlo, ma, al contrario, al fine di non ridurre e limitare la diversità e la pluralità delle espressioni e dei linguaggi uniformando, omologando, regolarizzando e assoggettando.

    Solo così, in effetti, le arti creative possono contribuire, equivocamente, a cucire il mondo. Continuando a donare, nel mondo, immagini dell’opera/mondo. Senza prezzo. Senza alcuna superstiziosa idolatria del soggetto e dell’oggetto. Senza obbligatorietà del contraccambio. E senza l’ossessionante supermediazione del denaro.

    6. Un programma etico-artistico-politico-filosofico

    Dellatorre non teme affatto di misurarsi con i problemi e le questioni più cruciali, che assillano il nostro tempo. A proposito del superpotere del denaro, già Joseph Beuys aveva cercato di superarne le implicazioni più alienanti e la sua prerogativa di generare e perpetuare disuguaglianze, proponendo di considerarlo e trattarlo come l’equivalente del sangue o della linfa negli organismi viventi, adoperandosi, quindi, per garantirne una circolazione uniformemente naturale. La posizione di Dellatorre è più radicale e, al tempo stesso, anche assai più semplice.

    Del denaro è realmente possibile fare a meno sic et simpliciter, se ogni relazione assecondasse quello che Baudrillard ha chiamato «scambio simbolico», come, per l’appunto, dimostra l’esperienza del donare l’opera d’arte.

    Ti dono un’opera, nel celebrare il compimento di quasi cinquant’anni di ricerche e pratiche artistico-creative, nella sua nuda semplicità, mette performativamente all’opera un ambizioso progetto dal carattere (non astrattamente) etico-artistico-politico-filosofico, i cui elementi cardine possono, alla fine, essere così sintetizzati:

    a) Quella artistico-creativa non è un’attività autonoma, indipendente e separata dal resto delle attività umane e del vivente in generale, ma costituisce il cuore e il fulcro di ogni atto vitale.

    b) La creatività artistica, nella misura in cui circola dappertutto, si esprime quale prassi performativa in progress e, secondo il modello esemplare della musica, della danza e dell’arte dell’attore, non si riduce mai esclusivamente a produzione di oggetti scambiabili destinati ad installarsi definitivamente e stabilmente sulla scena dell’apparire.

    c) Di conseguenza, l’opera senza soggetto e senza oggetti è processo creativo metamorfico, nella mescolanza di tutto in tutto.

    d) L’artista non è il soggetto/autore, che produce gli oggetti dell’arte, attribuendovi il loro significato peculiarmente artistico, ma è pura soglia in trasformazione delle emergenze dell’infinito corale conversare delle forme di vita nel teatro dinamico dei mondi.

    e) Il “sistema dell’arte” imperante, nel suo vincolare totalitaristicamente l’opera alle macchinazioni del mercato globale delle merci, rappresenta e perpetua la massima alienazione della creatività e quindi della vita stessa, nella misura in cui la vita è creativa in quanto tale.

    f) La pratica e le esperienze artistiche, purché sottratte alle catene del sistema dell’arte, dimostrano – in modo trasferibile ovunque e dappertutto – che è possibile fare a meno del denaro e di tutto ciò che gli scambi fondati sul denaro causano e comportano.

    g) L’arte è dono, la vita è dono. Ogni relazione non può prescindere da un reciproco, per quanto mai esattamente simmetrico, donare/donarsi.

    Per tutto questo Ti dono un'opera

    Febbraio 2024, Romano Gasparotti